mercoledì 23 luglio 2014

Lo vuoi un caffè? # 404 - Potenza. Texas.



Guidare su questa strada è come guidare in un quadro di Van Gogh. 
Come guidare nel campo di grano, una tela piccola così esposta in un angoletto del museo ad Amsterdam dedicato al nostro. 
Il giallo del sole si impasta con quello della terra facendosi grano, grano a perdita d'occhio; grano a distesa su entrambi i lati di questa strada dritta che non finisce mai.
Ho l'impressione di sognare, guardo fuori dal finestrino e mi sembra di viaggiare in un altrove sconsciuto.
Anche le rare stazioni di servizio hanno un aria desolatamente solitaria.
Mi fanno venire in mente le foto o alcune scene dei film di Wim Wenders. 
Paris. Texas .
Potenza. Texas .
Sbucano solitarie in questo universo di grano, surreali nei loro colori accesi, incongrue per le loro dimensioni.
Oggetti, giocattoli dimenticati li da qualcuno troppo cresciuto e grande che usa questa terra gialla e ocra come un tappeto da gioco. 
La tipa al bancone del bar quando le chiedo indicazioni mi suggerisce di fare una deviazione. 
"Cosi arriva prima" dice senza rendersi minimamente conto che forse non ho mica tutta questa voglia di arrivare prima.
Sul piazzale della stazione di servizio ombre appena percettibili nella luce bianca accecante del mattina vibrano come l'aria calda. 
I due tizi fuori del bar, sbucati da chissà dove, mi ricambiano silenziosi come statue l'impercettibile segno di saluto che gli rivolgo senza distogliere lo sguardo curioso dalla straniero.
La deviazione si arrampica sui monti, una strada stretta e piena di buche con un manto di asfalto butterato e calcinato dal sole che si sfarina lungo i bordi.
La temperatura man mano che mi arrampico su questa strada scende fino ad un incredibile, per questo periodo estivo, 18 gradi; l'aria è fresca, frizzante malgrado il sole alto che splende in un cielo talmente limpido che non si riesce a guardare nemmeno indossando gli occhiali da sole.
Si sta benissimo fuori dall'auto, su questo bordo strada sperduto nel nulla.
talmente bene che non mi accorgo nemmeno del rapace che mi guarda, spero non valutandomi come preda, da un ramo a pochi metri da me. 
Quando spicca il volo sobbalzo.
Adesso è un puntino scuro e piccolo nel cielo che si allontana rapido mentre mi assale la tremenda consapevolezza dell'assoluta inutilità di tutto quello che sto facendo.

Il palazzo del Tribunale ha un che di famigliare. 
Per a precisione qualcosa che a che fare con un film di sci fi, genere catastrofico, visto da bambino al cinema con mio padre o forse con gli amici.
Quintet.
Cemento e vetro. 
Tonnellate di cemento e vetro.
Una massa di materia inerte che racchiude al suo interno un sonnecchio formicaio umano.
Nei corridoi ampi e bui si aggirano colleghe agghindate come mannequin in attesa di posare per un set fotografico di haute coture e impiegati sudaticci e annoiati in maniche di camicia.
Il vigilante all'ingresso, più piccolo della pistola che gli pende alla cintura, è gentile e mi indica con precisione come fare per arrivare all'ufficio che cerco.
All'ufficio notifiche delle tre impiegate che siedono dall'altra parte del vetro protette come santini, mi tocca in sorte quella che siede al centro dello schieramento, tra la collega anziana che non smette un attimo di origliare ogni nostra parola e l'altra che, invece, di quello che ci diciamo se ne fotte bellamente per tutto il tempo.
Ho la sensazione dal suo modo di rivolgersi ai suoi interlocutori e dal suo modo di gesticolare che la tipa, che  professionale e rapida sbriga la pratica, stia cercando una sistemazione.
Ha un sorriso pieno di gengive e qualche dente leggermente offeso con quello che gli sta accanto.
L'impossibile idillio è interrotto da una sguaiatissima collega che occupa l'ufficio con la sua ingombrante e rumorosa presenza.
Al bar al pianterreno un surreale barista, impegnatissimo a non far nulla, mi guarda scandalizzato e mi indica, a braccia conserte, il suo collega con un cenno inequivocabile di sopracciglio quando gli chiedo di servirmi un caffè ed un cornetto.
Un cenno che serve a farmi capire che alla faccia delle più varie teorie sull'organizzazione del lavoro, li dentro si applica la teoria fordista classica.
Ognuno fa solo una cosa e solo quella.
Senza eccezione alcuna.

Il ritorno è una lunga, lenta e accaldata discesa verso un mare lontano perennemente nascosto dalla linea lontana dell'orizzonte.
Altre ore alla guida tra campi i cui colori appartengono di diritto a Vincent.
Giallo, ocra, arancione, cenere a distesa.
Mucche pigre sdraiate a ruminare placide all'ombra di un unico albero sul cucuzzolo di una collina.
Alla radio Luca Carboni mi ricorda che ci vuole un fisico bestiale per resistere agli urti della vita.
Un deposito di materiale per l'estrazione dell'acqua o del petrolio o di chissà cosa nascosto alla vista dei guidatori che gli scorrono accanto da una siepe appena accennata di piantine striminzite e sofferenti.
Devo ricordarmi di chiamare un paio di persone nel pomeriggio anche se non so cosa dir loro.
Un stazione di servizio e annesso motel presi di peso da Disneyland mi spingono a chiedermi di diavolo ci si ferma in un posto del genere.
Coppie molto clandestine in cerca di un impossibile anonimato? commessi viaggiatori sull'orlo di una crisi di nervi?
Il telefonino è muto, non c'è campo.
Rotoballe di fieno a distesa su entrambi i lati come un esercito in attesa dell' ordine per attaccare.
Lo speaker mi ricorda che in giro per il mondo una delle occupazioni principali della gente è scannarsi con ogni mezzo a disposizione.
Inaspettate tracce di acqua corrente tra colline calcinate dal sole e sfarinate da millenni di movimenti della terra e dal passaggio eterno delle stagioni.
Chiassà se ci sono i pesci dentro?
L'aria si riscalda sempre più, il mare è una chimera lontana.
Un richiamo di sirene che non ascolto mentre guido verso casa nel mio bozzolo di aria condizionata a palla.
L'arrivo a destinazione è solo una tregua prima del balzo verso il lungo pomeriggio che mi attende.

"Lo vuoi un caffè?" - chiede quello
"Preferirei dormire" - risponde l'altro

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